Benchè Platone condannasse le poesia, egli stesso si è servito di artifici letterari a scopo didattico, per rendere meglio comprensibile il suo pensiero, recuperando o inventando dei miti.
Uno dei più famosi è il mito della caverna, raccontato nel libro VII della Repubblica.
Il filosofo greco immagina che alcuni schiavi siano incatenati fin dall’infanzia in una caverna in modo tale da vederne solo il fondo, sul quale sono proiettate le ombre prodotte da statuette che vengono fatte passare alle loro spalle, sopra un muretto, illuminate da un fuoco.
Dalla loro posizione gli schiavi non vedono le statuette e credono che le orme siano l’unica e la vera realtà esistente. Uno schiavo però si libera e riesce a vedere le statuette, fonte delle ombre; uscito dalla caverna può capire, quando gli occhi si sono abituati alla luce, che a loro volta le statuette non sono la realtà, che è invece al di fuori della caverna.
Abbagliato dalla luce, non può vedere le cose subito: deve prima accontentarsi delle immagini riflesse nell’acqua, finchè tutto gli appare più chiaro e può alzare lo sguardo.
Lo schiavo, identificabile con Socrate, non si accontenta di tenere per sé la scoperta fatta, ma rientra nella caverna per portare la verità agli altri schiavi: viene inizialmente deriso da chi non crede a una realtà diversa da quella fino ad ora contemplata e viene ucciso.
Il mito illustra l’unione tra la conoscenza, educazione e politica.
Socrate compiuto il faticoso cammino verso la verità, vuole comunicare la sua scoperta a tutti gli uomini per liberarli dalla loro schiavitù: la caverna buia rappresenta la condizione di ignoranza che rende prigionieri di false credenze e della passioni.
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